La rilevanza esterna dei contratti di convivenza

Lo strumento giuridico principale con cui si potrebbe garantire la rilevanza esterna di un accordo è la sua pubblicità in generale – per esempio attraverso la trascrizione – che lo potrebbe rendere opponibile erga omnes

La legge 20 maggio 2016, n. 76 prevede per i conviventi un meccanismo di opponibilità erga omnes di taluni loro accordi personali “nel corso della vita familiare” concernenti “l’indicazione della residenza comune”, “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”, nonché la scelta del “regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. (art.1, comma 53) purché inseriti nei contratti di convivenza (art.1, comma 50).

Con questa disposizione la legge 76/2016 ha introdotto una ipotesi di pubblicità dichiarativa (simmetricamente a quella relativa alle convenzioni matrimoniali: Cass. civ. Sez. Unite, 13 ottobre 2009, n. 21658). Si parla di pubblicità dichiarativa allorché la funzione della pubblicità è quella di rendere opponibili ai terzi i fatti di cui si prevede la pubblicità; in questo caso l’inosservanza dell’onere di pubblicità comporta la inopponibilità dei fatti non registrati, a meno che non si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza.

Il contratto di convivenza ha un contenuto limitato e predeterminato dalla legge.

Restano fuori dal “contratto di convivenza” regolamentato dalla nuova legge altri aspetti e cioè gli accordi di reciproco mantenimento o quelli in vista della cessazione della convivenza (diritti e obbligazioni di natura patrimoniale reciproci e previsione di un eventuale sostentamento, s’intende, oggi, a contenuto non deteriore rispetto a quello previsto dalla legge 76/2016) e altre clausole negoziali. Aspetti questi che non possono essere contenuti nel “contratto di convivenza” ma che potrebbero ben essere contenuti con validità obbligatoria tra le parti (salvo la trascrizione degli atti eventualmente previsti), in ulteriori accordi tra conviventi integrativi, e non sostitutivi s’intende, della disciplina inderogabile che la nuova legge introduce a tutela minima dei diritti dei conviventi.

La residenza comune può essere indicata nel contratto di convivenza (ed anzi può anche esserne l’unico elemento ove nulla i conviventi dispongano in ordine al regime patrimoniale) così evitando che possano nascere in seguito problemi relativi alla identificazione del luogo di residenza della coppia.

Mentre è chiaro che cosa si intenda per scelta del regime della comunione dei beni, non altrettanto chiaro è che cosa il legislatore intenda per scelta delle “modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune”. Nemmeno l’art. 143 del codice civile – che per i coniugi individua il regime primario contributivo – parla di “modalità” ma prescrive in via generale che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo a contribuire ai bisogni della famiglia” indicando un obbligo del quale le modalità di attuazione dipenderanno di volta in volta dagli accordi tra i coniugi (art. 144 c.c.).

Indicazione delle “modalità di contribuzione” significa che i conviventi possono rendere opponibili verso terzi le modalità con cui essi si distribuiscono gli oneri economici nella gestione della vita in comune. I conviventi si assumono, perciò, ciascuno una quota dei costi della vita comune. Non significa che i conviventi si attribuiscono “obblighi di contribuzione” reciproca, cioè che si assumono obblighi di mantenimento reciproco. In questo senso il contratto di convivenza nella misura in cui – relativamente alle modalità di contribuzione – può contenere queste indicazioni, e solo queste, si allontana dal modello di contratto di convivenza cui si riferisce la prevalente letteratura giuridica.

Pertanto, il riferimento generico alle “modalità di contribuzione” sta a significare che il legislatore non introduce certamente nei rapporti di convivenza un’obbligazione primaria contributiva analoga a quella prevista nell’art. 143 c.c., e quindi non trasforma in obbligazione giuridica quell’obbligazione naturale (dovere morale e sociale) che è comunque pacificamente riconosciuta tra conviventi, ma semplicemente consente ai conviventi di concordare modalità di “contribuzione alle necessità della vita in comune” per esempio stabilendo che uno dei due si dedichi al lavoro casalingo e l’altro lavori all’esterno, oppure concordando di destinare ad una cassa comune parte dei rispettivi proventi, oppure stabilire che uno dei due paghi l’affitto e l’altro si occupi della gestione economica della casa oppure delle spese mediche o altre modalità. Queste modalità (ed è questo l’interesse della norma) saranno, con la iscrizione anagrafica del contratto di convivenza, opponibili ai terzi.

Quindi se i conviventi pattuiscono nel “contratto di convivenza” che solo uno dei due sia obbligato al pagamento dell’affitto della casa, il proprietario della casa che i conviventi conducono in locazione, potrà pretendere l’affitto dal solo convivente onerato dall’obbligazione. Ai creditori insomma saranno opponibili le modalità prescelte dai conviventi.

Questo aspetto è di grande importanza e inedita delicatezza dal momento che introduce una “rilevanza esterna” degli accordi tra conviventi che non c’è oggi neanche per gli accordi tra i coniugi. Gli accordi tra coniugi di cui all’art. 144 del codice civile, infatti, sono rilevanti nei confronti dei creditori solo nella misura in cui – come si è visto – essi abbiano potuto fare affidamento sulla situazione esteriore. Viceversa, essendo gli accordi tra conviventi certificati in un accordo iscritto all’anagrafe (e quindi essendovi in regime di pubblicità) – fermo l’obbligo del convivente debitore (art. 1375 c.c.) di rendere edotto il creditore della condizione di convivenza – il creditore diligente potrà sempre acquisire copia all’anagrafe del contratto di convivenza il cui contenuto sarà sempre a lui opponibile.

In ogni caso queste ulteriori estrinsecazioni della negozialità tra conviventi inserite nel contratto di convivenza non importano l’indicazione di obbligazioni reciproche di carattere patrimoniale. Le “modalità di contribuzione” sono certamente obbligazioni ma non sono obbligazioni reciproche di mantenimento e cioè non costituiscono quello che è il contenuto storico di quelli che nella prassi notarile e giuridica sono sempre stati chiamati “contratti di convivenza”.

La disposizione di cui all’art. 1, comma 53 della legge 76/2016 secondo cui il contratto può contenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile) è certamente da considerarsi una norma imperativa.

La violazione di una norma imperativa costituisce secondo i principi generali (art. 1418 c.c.) causa di nullità del contratto, ancorché evidentemente il comma 57 non la includa espressamente tra le cause di nullità ivi previste.

È nullo l’intero contratto o sono nulle solo le clausole eccedenti o contrastanti con la previsione di legge?

Riterrei che possa applicarsi la disposizione dell’art. 1419 c.c. secondo cui “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”.

In base al richiamato comma 51 “Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità…”. Pertanto nel comma in questione si prevede espressamente che i conviventi possano sempre modificare il contratto di convivenza con le stesse forme e modalità con cui l’hanno stipulato.     

2021-11-06T21:54:41+00:00